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domenica 5 maggio 2013

Fruizione dei testi

Si informa che i saggi presenti nel blog possono essere agevolmente scaricati in www.academia.edu.
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Acqua Patrizia. Ville e canali nell'Alto Trevigiano


Lucio De Bortoli © Acqua Patrizia
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Acqua Patrizia
Ville e canali nell’alta campagna trevigiana
Irrigano questo grande territorio l'acque che sono per ubertà del Paese dalla Divina
Providenza donate à commune commodo, e quasi vene di questo nostro corpo vanno
contribuendo spiritali humori ad ogni membro non solo, ma a qualunque parte più minuta
d'esso. La distribuzione di questo necessario elemento viene dalla Pubblica Autorità per
speciale nobilissimo provileggio a magistrato gravissimo di VV.SS. Illustrissime
demendata, et la generosa loro munificenza à chiunque ne tenga bisogno quando non cede a
pregiuditio d'altri.
Così Francesco Quirini nel 1685, ad incip della sua richiesta di usufruire di una
cisterna per la sua residenza biadenese. Il testo a me pare contenere, in distillato, le due
coordinate su cui fondare qualsiasi dibattito sull'argomento: l'essenzialità vitae e le forme
distributive. Due qualità che assumono, per il caso Brentella, un carattere persino
programmatico, specie allorché ci si limiti a considerare funzionalmente il peso dell'uso
alimentare (uomini e animali), energetico e irriguo del canale.
Non è naturalmente questa la sede per riepilogare i tratti che Raffaello Vergani ha di
recente abbondantemente delineato. Tuttavia, prima di ogni altra considerazione, appare
doveroso dar conto in sede di premessa dell'estrema esiguità, nel comprensorio interessato,
della superficie agraria irrigata rispetto a quella che possiamo fin d'ora denominare a brolo
(frutteti, giardini e orti) e a prato. Tenerne conto significa precisare che quasi la metà dei
terreni beneficiati coincidevano con le colture specializzate e di qualità della proprietà
signorile. Ciò significa assegnare al fattore distributivo il rispetto analitico che merita e cioè
quello di cinghia di trasmissione di precisi equilibri sociali.
Uno degli elementi di sistematica presenza nei carteggi dell'Ufficio alle Acque è
infatti la necessità di temperare concessioni private e pubbliche, i boccaroli di famiglia e
quelli di villa (villaggio). Con ciò non si intende tanto sottovalutare le cronicità strutturali
della vita del canale (il problema delle ville inferiori, il conflitto perenne tra usi irrigui ed
energetici, la portata d'acqua, la manutenzione dell'alveo), quanto riflettere attorno a quello
che, qualche tempo fa -quando cioè certi valori non erano oggetto di un dileggio accademico
per il quale ciò che conta è essere controcorrente anche quando, come ora, la corrente si è
invertita da tempo- sarebbe stato definita un'ineguale distribuzione delle risorse. Il nostro
canale, proprio per le motivazioni che portarono alla sua intrapresa e per le funzioni che
assolse nei secoli d'antico regime, si presta invece ad un lettura in chiave sociale
particolarmente significativa. Il capitolo degli insediamenti di villa ne è una decisa conferma.
Lucio De Bortoli © Acqua Patrizia
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Quando Angelo Prati ne disegnò il corso il canale aveva più di tre secoli di vita. Le
mappe che compongono il Dissegno registrano quindi la compiuta penetrazione fondiaria ed
insediativa dei veneziani nell'alto trevigiano. Ciò nonostante, a testimonianza del massiccio e
immediato radicamento, la proprietà insediativa dei trevigiani nei pressi delle sponde d'acqua
rimane ancora, nella seconda metà del XVIII, rilevante. Nonostante la pressione della
proprietà veneziana stabilitasi nel quadrante di nord-est del castellano abbia avuto un ruolo
più che rilevante –specie in considerazione del peso dei nomi coinvolti- è ormai assodato che
la decisione di adacquare le plaghe di gran parte delle Campagne (Sopra e Sotto) rispose in
primis alle esigenze di investimento da parte della classe dirigente trevigiana. Del resto, la
storia dell'istituzione e dei suoi conflitti di attribuzione e di competenza con Venezia è ben
nota. Il sentimento di orgogliosa difesa della gestione di un'opera realizzata e mantenuta col
concorso delle comunità di villaggio e delle ricchezze cittadine diventò una ragione
sufficiente d'appartenenza e una prova tangibile di amor proprio, anche al di là delle lacune
più volte segnalate nelle relazioni podestarili e dei limiti periodicamente denunciati; limiti
certo oggettivi, ma pur sempre piuttosto veniali se paragonati ad alcuni comparti idraulici
affidati alle magistrature venete competenti. Certo, la titolarità dell'Ufficio alle Acque sarà di
fatto, malgrado qualche tenue riforma, esercitata da un nucleo ristretto di maggiorenti
(Bressa Bettignoli, Rovèr, Rinaldi, Spineda, Azzoni, Agolante, Pola, Bomben, da Borso,
Onigo, Gandin) al contempo proprietari di fondi e poderi generosamente beneficati dal
canale, al punto che vien spontaneo plaudire alla ben nota e ante litteram denuncia "di classe"
del Podestà Zantani ("diti proveditori et li sui parenti fano quello che voleno de dite aque et
li poveri crepano de dexaxio et non hanno aqua per il bever loro..") se non intervenisse
legittimamente il dubbio che forse si trattasse d'altro; e cioè di uno dei round della
contrapposizione tra autorità centrali e cittadine nella gestione delle concessioni, delle
direttrici, della distribuzione e delle quantità. E la conferma viene dall'abbondanza della
portata d'acqua delle seriole verso le podestarie di Asolo e Castelfranco, aree fortemente
caratterizzate dalla precocità della proprietà veneziana. Rimane il fatto che quando arriva il
patriziato della Dominante si insedierà dovunque, anche lungo le fasce tradizionalmente
"trevigiane", ma con minor pervasività rispetto alle aree limitrofe.
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Ma non si potendo aver fiumi navigabili, si cercherà di fabricare appresso altre acque
correnti (…) E perché le acque sono necessarissime al vivere umano, e secondo le varie
qualità loro vari effetti in noi producono (…) si userà grandissima diligenza che vicino a
quelle si fabrichi, le quali non abbiano alcuno strano sapore e di niun colore partecipino: ma
siano limpide, chiare e sottili.
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Appare persino pleonastico sottolineare come il celebre consiglio palladiano si adatti
perfettamente al quadro in analisi. E tuttavia, per non cadere in facili illusionismi, è subito
opportuno precisare che il quadro tipologico e residenziale delle ville lungo il Brentella è ben
poco assimilabile agli scenari altrove ricostruiti per le vie d'acqua in genere. Un canale non è
evidentemente un fiume e, soprattutto, non lo era il sistema umido di cui parliamo. Non
troveremo, salvo rarissime eccezioni, ville lungo le sponde del ramo principale; troveremo,
invece, il proliferare di edifici padronali nel territorio interessato dalla canalizzazione. Inoltre,
sul piano tipologico appare pressoché assente la villa fondale, costruita cioè sulla riviera per
essere vista da precise prospettive. Minoritaria appare anche la villa scenografica o, più
convenientemente, la villa-palazzo.
Come già alluso, se è vero che le nuove possibilità offerte dall'arrivo dell'acqua
producono un'inedita capacità di richiamo economico da parte di un territorio prima poco
appettibile, la conferma viene dal censimento delle dimore che vi si costruiscono. Mai, forse,
come nel caso di tali irradiazioni d'acqua, assume centralità e dimensione numerica la
tipologia della casa da statio: un edificio in cui il termine negotium non appare solo un'opzione
ma, per certi versi, un'autentica necessità organica della domus, una funzionalità di ruolo che,
peraltro, si situa lungo il solco di una tradizione pre-palladiana da tempo riconosciuta. E che,
d'altronde, molte delle cosiddette ville brentelliane siano poco più di case di campagna risulta
evidente non solo nella realtà, ma anche, come vedremo, nelle fonti.
Il minimalismo edilizio in oggetto, è poi direttamente connesso con l'accezione
terminologica. Ci si è orami resi conto che per decenni abbiamo continuato a chiamare villa
una abitazione di villa, situata cioè in un villaggio. E, del resto, bastava prestare maggiore
attenzione alle fonti per capire che le cose erano piuttosto semplici. Nel Veneto, a partire da
Palladio (case di villa) per proseguire con le definizioni d'estimo (casa de muro, casa da statio), il
Cinquecento ci consegna, infatti, un quadro fatto di case tout court. E' ben vero che nel Sei e
Settecento, forse anche con il crescere del sentimento di aristocraticizzazione di un patriziato
sempre più rentier, si introdurranno la casa dominicale e il palazzo, secondo un climax più
dimensionale che qualitativo; ma è anche altrettanto acquisita la certezza che l'arrivo del
palazzo segnerà anche la definizione di un processo di urbanizzazione delle campagne
attraverso la proclamazione conclamata del possesso culturale della città. Di più. La
costruzione di un palazzo di città in campagna produce anche, circolarmente, l'ingresso
spettacolare dell'otium, dello spasso e del solazo, in breve del soliloquio d'evasione, ma in
termini e proporzioni tali che di fronte ad essi gli strali primocinquecento del buon Priuli
appaiono superati non solo dalla svolta fondiaria post Cambrai ma persino attardati rispetto
alle opzioni umanistiche quattrocentesche. Del resto a nobilitare la scelta di campagna
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bastava da solo il veicolo letterario del De vita solitaria petrarchesco, da tempo transitato nelle
dimore prescitte da Anton Francesco Doni e, in particolare, in quello della casa "da
gentiluomimi e da letterati", autentica terapia rilassante per personalità affaticate dai travagli
repubblicani e desiderose di pace e spasso di mente e di passeggiate "con un libretto
piacevole in mano".
Fenomeni comunque confinati perché, alla fine, al di là delle nominazioni, le case da
statio cinquecentesche, seppur divenute palazzi, non mutano fondamentalmente i propri
assetti e le vocazioni del gentiluomo di campagna, impegnato nel Cinque e ancor più nel
Seicento ad organizzare funzionalmente il podere attraverso coerenti e adeguate strutture
edilizie. La maglia brentelliana, in questo senso, offre un quadro di elevata omogeneità. Nelle
fonti, la residenza affiancata e circondata da teze, barchesse, case da gastaldo, forni, caneve,
cortivi (occorrenze lessicali con cui prendere obbligatoriamente confidenza), è un leit motiv
che esalta materialità e funzioni. Basti il rimando alla scabra, funzionalissima, descrizione dei
locali e dei vani del dominicale dei Rover a Caerano o a qualche pagina “turistica” del
Burchielati in visita a Cornuda –con tutti i corredi linguistici e particolarmente incongrui nella
rendicontazione barocca di redditività agrarie e sistemazioni tecniche delle vigne e del
frutteto- per comprendere quanto lontano dalla realtà rustica sia stato –e sia ancora- il
comune approccio al fenomeno territoriale delle ville. Insomma, le case di cui parliamo in
termini prioritariamente estetici sono sempre state, in gran parte, aziende coscienti della
necessità dell'autosufficienza e di un canale che dava loro senso e funzione. Le novità, nel
tempo, saranno se mai quelle portate da un proprietario che aveva preso a pensare che con
l'acqua ci si sarebbe anche potuti divertire. Ma di questo basti qualche rimando alla
villeggiatura goldoniana e alle molte odi neoclassiche confezionate da uno stuolo di poetastri
d’occasione dediti all'esaltazione dei fasti padronali colti quasi sempre nel momento esaltante
di una peschiera che finisce per diventare riserva manuale di pesca per ridicolizzati contadini
dileggiati dai villeggianti. E' però ora il momento di prendere confidenza con i disegni di
Prati e di seguire l'acqua che finisce in villa.
Ad Angelo Prati venne affidato il compito di dare disegno e colore ai corsi del
Brentella: e questo egli fece. Prati mise su carta il sistema pensando, ovviamente, alla
centralità che nel suo rilievo dovevano assumere le vene, le arterie e i capillari del sistema e
disegnò una magnifica serie di mappe tematiche. Con ciò si vuol precisare che tutto il resto –
strade, trama dei campi, orografia, edifici e ville- diventò, di fatto, elemento di contorno e di
obbligata contestualizzazione territoriale. D'altronde, va ricordato, sia pur sommariamente,
che il concetto di selezione e di elaborazione degli strumenti cartografici tende sempre alla
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trasformazione territoriale e alla riproduzione parziale della realtà, a partire dalle finalità che
si intendono conseguire e all'ordine sociale che si intende raffigurare.
In altre parole, il grado di riproduzione degli elementi collaterali aumenta
vistosamente solo in relazione al grado di ramificazione e di pervasività della rete d'acqua. Là
dove le nervature dei boccaroli e delle prese non arrivano o si perdono non c'è paesaggio, né
antropico né naturale. Prati, in questo, è sempre preciso, coerente e chiaro. Tutto ciò spiega,
nell'ottica di queste pagine, alcune clamorose assenze (poche) o, meglio, sconcertanti
diminuzioni di visibilità; o, ancora, vistose sottolineature e, al contrario, inopinate anonimità.
Esemplificando, a braccio. Non compaiono nei mappali né villa Mora a Visnà di
Montebelluna, né villa Tiretta (Agostini) a Cusignana, né villa Tamagnino-Lattes a Istrana, tre
tra gli edifici qualitativamente più rilevanti dell'intero comprensorio. In molte occasioni il
perito preferisce intestare le grosse case coloniche in aperta campagna, accenna solo
fugacemente ad alcuni celebri edifici come villa Emo e Sandi e lascia senza indicazione tutta
l'infilata padronale e signorile posizionata sulle sponde o nei pressi della seriola del Montello.
Per il resto, le indicazioni anagrafiche s'infittiscono soprattutto nelle ville meridionali e lungo
le traiettorie del canale in aperta campagna, là dove cioè appare evidente la necessità di
piantare paletti orientativi e creare riferimenti. In alcuni casi (Barco di Altivole, Cà Pola a
Barcon, Cà Onigo a Trevignano), invece, la casa o il complesso padronale si stagliano come
autori assoluti dell'identità del sito reso legittimo e soprattutto riconoscibile solo e
unicamente grazie alla loro presenza. Come spiegare, allora, la ritrosìa segnaletica nella parte
superiore? Le risposte paiono essere due: o l'elevata densità insediativa e idraulica (si vedano i
casi di Montebelluna e della citata seriola montelliana con il corredo dei numerossimi
boccaroli) e il conseguente timore di affastellare il disegno di nomi; oppure la volontà di
comporre un quadro che risultasse, all'occhio, omogeneo e ridimensionasse pertanto le
prevalenze storiche. Ad ogni modo, qualsiasi censimento quantitativo degli edifici di villa (al
contrario dei mulini) estratto dai mappali del Prati deve fare i conti con le condizioni finora
esposte e va obbligatoriamente integrato con la fedeltà assoluta delle restituzioni edilizie degli
estimi.
Domina su tutto, comunque, il bisogno di comunicare il carattere decisivo ed
essenziale del canale. A ben guardare, ville e villaggi sembrano, in molti casi, originati dalle
spire di canalette inarrestabili e imprendibili. In effetti, se gran parte delle 59 ville del
Brentella esistevano già a metà Quattrocento, è pur vero che i dati di cui disponiamo, anche
se non sempre omogenei, delineano un inequivoco aumento di campi coltivati ed estimati, di
abitazioni e di impianti produttivi, di uomini e di traffici. Insomma, la restituzione grafica di
Prati, prima ancora di essere quella che si è soliti chiamare una fotografia della situazione,
dichiara apertamente ciò che le carte urbane, sia pur a diversi livelli, tendono a segnalare; e
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cioè la rappresentazione del possesso, secondo il principio per cui, così come la città diventa
il simbolo del complesso di un territorio che proprio perché non viene raffigurato si avverte
come compreso in virtù della sua assenza, allo stesso modo l'acqua si fa simbolo di un
paesaggio che si percepisce proprio nella sua, solo in apparenza sorprendente, mancanza.
L'obiettivo è peraltro ribadito dalla stupenda gamma dei colori e dal protagonismo
dell'azzurro acqueo per i corsi e per gli invasi, del rosso delle coperture e del giallo delle
strade: una scelta che tradisce una volontà ideologica evidente e che sottolinea come la
dominanza antropica si affermi prepotente ancora una volta nei termini del possesso che
sigla la riduzione a mero fondo di quasi tutto il resto -se si fa eccezione per l'appunto del
profilo montelliano e delle adiacenze plavensi delle prime tavole.
Io vi giuro, che non vi potrei esprimere il ramarico, che ogni hora sento della lunga
prigionia, dove sono stato [in città], la quale mi ha privato, di questo pacifico vivere, che
hora gusto in questa terra, conciosia che con ogni libertà posso andare per la Villa, per le
vie, per li campi solo, accompagnato, vedendo hora vaghi uccelli, e hora bei giardini, hora
vive fonti, e hora chiari fiumi, tal'hora verdi prati, tal'hora lieti campi, non perdendo mai
punto del mio honore.
Qui medesimamente ai suoi tempi, godo quest'aere purgatissimo, il sole splendidissimo, i
giorni lucidissimi, le notti quietissime, le tante acque limpide, le piaggie verdeggianti, gli
arbori fronduti, e le viti cariche di diverse uve.
Qui parimenti con gran contento magio a quell'hora, che più mi aggrada, hora sotto la
loggia, e hora innazi alla porta, hora nell'orticello, hora nel giardino, hora in qualche
prato, e hora a canto della peschiera, o di una risorgente fonte, over di un bel rio, o d'altra
chiara acqua.
I contorni del quadro che Agostino Gallo -aprifila con il suo trattato dedicato
all'agricoltura e alla residenza di campagna di un autentico filone di genere che si dilaterà nel
Seicento- assegna a Ludovico Moro latore di una lettera a Giovan Battista Avogadro,
contiene, con ogni probabilità, uno dei moventi più significativi che presiedevano alla scelta
di una vita in villa. L'affermazione del godimento e della contemplazione estatica della natura
si accompagna inoltre ad un'esplicita confessione di libertà dai codici e dalle soffocanti
convenzioni urbane. Il particolare a me non sembra così trascurabile. Se è vero, come detto,
che la casa di villa è certamente il centro di un'azienda, secondo una tradizione analitica
ormai consolidata che vede la fabbrica dominicale perno di un articolato e organico
complesso di strutture funzionali (barchesse, case del fattore e del castaldo, fienili e
magazzini, lavatoi e stalle) a variabile sistema distributivo (corte, adiacenze, corpi laterali,
chiusure), è altrettanto vero che essa è stata anche materializzazione di status, luogo d'ozi e,
nei casi più aulici, finanche sede e dimora di temi e topoi di natura petrarchesca e letteraria.
Ma queste sono le dimore di un'aristocrazia blasonata nei titoli e nello spirito culturale. Lo
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stesso non si può dire per la proprietà del nuovo ricco e del nobile di provincia, del borghese
elevato a Nobil Huomo dall'acquisto del titolo e dal rentier burbero e micragnoso che
emerge dalla letteratura e dalle fonti notarili. Per parte di costoro ben si attaglia il ritratto del
Barpo, per il quale, in linea con l'imperterrito successo della satira del villano nei secoli di
antico regime, è bene che i contadini stiano distanti dalla pars dominica, rintanati nelle loro
case "basse e oscure, che non le godi se non di notte, né sappia habitarle volentieri, ma se ne
stii alla campagna, al lavoro, alle fatiche, non al coperto, al riposo, alla quiete, all'ombra".
Riassumendo. La villa azienda appare un congegno, di fatto, elastico e titolare di
funzioni opportune, se non occasionali: essa diventa quindi da spasso, da studio e
conversazione, da lavoro, da rendita, da abitare, palazzi da esibire e ostentare in relazione alle
dinamiche patrimoniali, alle strategie di affermazione padronale, ai percorsi che legittimano le
presenze e spiegano ascese e cadute. E si potrebbe continuare poiché lungo e nei pressi del
nostro canale il panorama delle tipologie possibili, tra persistenze e scomparse, si presenta in
tutta le sue variazioni sul tema (basti il rimando agli Spineda di venegazzù e alla svolta
monumentale del nuovo palazzo di Miazzi-Preti). E ciò vale a ribadire, ancora una volta, la
decisività, ormai acclarata, che la presenza o la vicinanza dell'acqua assunse
nell'individuazione del sito e assume, alla luce dell'ormai ingente letteratura specifica,
sull'intero e colossale fenomeno della cosiddetta civiltà delle ville venete. Ma, ora, per quanto
ci riguarda e per quanto interessa alla fascia di alto trevigiano coinvolta dal sistema liquido del
Brentella, ciò che conta è capire che il solo modo di leggere lo spartito con ragionevoli
possibilità di comprensione è quello di dividerlo nelle aree/sezioni (o movimenti) che, più di
altre pur presenti, si segnalano per significatività insediativa e funzionale articolazione
residenziale.
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Asolana e Castellana. Le seriole destinate a raggiungere le aree sono elencate già
dalla Salomona del 1503, ai capitoli 22,23 e 33. La prima, quella destinata all'asolano
inferiore, portava acqua al Barco Corner, Altivole e San Vito sin dal 1493 (tavole Prati nn.49-
51); la seconda, di Fanzolo meglio conosciuta come Barbariga, esistente sin dal 1446 in
seguito all'azione di Zuanne Barbarigo a beneficio delle sue proprietà a Fanzolo (tavole Prati
nn.45-48, Caselle, Fanzolo, S.Floriano); la terza presente nella sentenza Morosina del 1466
ma di cui v'è traccia a partire dal '55 (tavole Prati 55-57, Riese, Vallà, Salvatronda).
Si tratta di un territorio con caratteristiche specifiche e, come detto in precedenza,
segnato dalla precocità del radicamento dell'aristocrazia lagunare. La grande estensione dei
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poderi e le dinamiche produttive conseguenti si riflettono sulla tipologia degli edifici,
generalmente ben dimensionati e articolati, a cominciare dal Barco, la cui edificazione pare
strettamente connessa derivazione d'acqua degli anni '90 del Quattrocento.
L'enorme letteratura esistente sulla residenza di campagna di Caterina Cornaro
consiglia di evitare inutili riepiloghi e di precisare, se mai, quella che da sempre appare una
delle poche certezze sul manufatto: la grande rilevanza assunta dall'acqua per le esigenze del
brolo circondato da muro a torno el pallazzo. La seriola, che proprio all'interno del Barco si divide
nei rami che portano a San Vito e Altivole, era la più ampia di tutta la rete idrica della
Brentella. Le fonti, col loro corredo di interventi atti a reprimere qualsiasi apertura di
boccaroli sul canale di Caerano -nonché sul corso stesso della derivazione- che potessero
limitare la portata d'acqua, sono nel merito più che esaustive e ci segnalano uno dei casi più
eclatanti di affermazione del privilegio. Del resto, che l'acqua desse evidente connotazione al
sito si ricava facilmente dalle informazioni di Feliciano Perona che nel 1595 calcola la
larghezza della seriola in quasi quattro piedi (3,79) e la superficie da irrigare in circa 90 campi;
e dalle annotazioni dello Scamozzi quando parla di "parco posto in campagna (…) irrigato
dall'acque che escono dalla Brentella" e del brolo "tutto cinto di mura, ove sono ruscelli
d'acque correnti per irrigar hor qua or là secondo il bisogno".
Nella vicina Altivole –così come a San Vito con il protagonismo degli eredi di Tuzio
Costanzo (nota)- si muovono gli interessi fondiari della meteora dei bergamaschi Castelli,
grandi commercianti di lana, nonché formidabili acquirenti di beni comunali e immobili in
tutta la fascia che da Montebelluna porta a sud dell'altivolese. Morti Iseppo e Francesco
senza eredi, la sorella Maria sposò un Manzoni ma divise poi la proprietà con gli amici Van
Axel a causa della sterilità del figlio Giuseppe e a patto che i Van Axel, ricchissimi negozianti
(ancora borghesi) provenienti dalle Fiandre (Malines) affiancassero al loro il cognome
Castelli. Proprietà quindi di grandi dimensioni e ambizioni conseguenti. La villa di Altivole,
un fine Seicento non disprezzabile, nelle sue aperture ad arco a sesto acuto con classico
sopralzo timpanato e la consueta struttura tripartita, è rimasto impressa nella memoria del
Paladini per il suo magnifico giardino descritto con dovizia. Prati, in effetti, restituisce con
evidenza grafica il corso della seriola che invade il retro della villa e a nord si dirama nel
villaggio coinvolgendo le case padronali dei Fietta (nota) e dei Bardellini- Zon, anch'essi
titolari di cospicuo fondo agrario e di un edificio arricchito di oratorio intitolato alla
Madonna di Loreto. Le grandi estensioni interessano anche Caselle segnata dalla presenza dei
Pisani e dei Grimani. La casa dominicale dei Grimani non esiste più, mentre quella dei Pisani,
di ridotte dimensioni rispetto alla documentazione grafica, è in deplorevole stato
d'abbandono.
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Il profilo fondiario del territorio raggiunge piena connotazione nel corso centrale
della seriola Barbariga che da Posmon si divideva in due rami, il primo verso Caselle e il
secondo verso Fanzolo. L'importanza della derivazione –risultato delle forti pressioni
esercitate dai Barbarigo prima e degli Emo poi- è testimoniato dall'assegnazione d'acqua di
piedi 0,75 per villa, la quota più alta, allo stato attuale delle conoscenze, dell'intero Brentella.
E' questa una di quelle circostanze in cui la consueta essenzialità di Prati esalta l'enorme peso
locale degli Emo. Mai, forse, come in questo caso la dimora padronale si configura come
paradigma di sacro (classicità) e profano, cioè come centro focale di un'invasività celebrativa
e economica globale partita da lontano (1429) assorbendo le proprietà Barbarigo sino a
raggiungere il vertice dei famosi 400 campi, integrata dall'acquisizione di tutti gli impianti
molitari del comparto (si vedano le tavole 47-48)e completata dalla costituzione di un filatoio
di seta (edificio da seta detto Cabianca) attestato a partire dagli anni '80 del '600 e che, per
quel che è noto, costituiva una delle più importanti realtà manifatturiere del trevigiano
impiegando nel 1735 ben cinquecento lavoratori. Un rilievo ravvicinato del 1677 mostra la
particellare insinuazione dei trenta rami d'acqua a servizio dei coloni degli Emo e dei
Barbarigo. Tutto il sistema è chiaramente funzionale all'andamento agrario ed energetico
dell'azienda, tutela, motore e proprietaria de facto della vita del villaggio e dei suoi residenti.
La struttura idraulica della località ha come perno il partidor al n.140 (tav.48) che
divide l'acqua in direzione di Cà Emo, Fanzolo (e la canaletta privata acquisita nel 1536 da
Lunardo Emo per "il giardino quadro di ottanta campi trevigiani per mezo il quale corre un
fiumicello che rende il sito molto bello e dilettevole" (Palladio), e di San Floriano, segnato
dalla presenza dei Balbi, il cui palazzo, lungo il lato meridionale della Postumia e al centro del
perno viario del villaggio, diventa, assieme alla speculare parrocchiale, il perno evidente
attorno al quale si dispongono le abitazioni del coloni. Un altro, eclatante, esempio di
costruzione del sito, come ben si evince dalla mappa particellare della seconda metà del
Settecento e che si ripete, anche nelle dimensioni del patrimonio fondiario, a Salvatronda, in
cui la dimensione latifondista dei Moro ben si rispecchia nell'imponenza ingombrante del
loro palazzo.
A sud ovest dei fasti degli Emo e della scia storico artistica della sua ormai
imponente letteratura, le ville di Riese, Salvatronda e Vallà ricoprono un ruolo di evidente
cerniera tra il sistema Brentella e quello castellano. Un serie di rilevazioni ravvicinate
consente di osservare, però, con grande utilità i percorsi d'acqua nel territorio di Vallà sino ai
confini di Salvarosa. Si tratta di una richiesta del 1714 della famiglia Dotto che richiede
l'installazione di una sorta di deviatore che aumenti la portata d'acqua diretta al loro brolo. Il
percorso delle canalette nell'abitato di Vallà mette in forte rilievo la centralità di un guazo, una
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specie di invaso per l'abbeveraggio, a sud della chiesa. Ed è la stessa vasca che si presenta,
però, in forma molto allungata nel disegno……in cui la seriola del villaggio accompagna la
strada attorno alla quale di dispongono le 66 case dei particolari. La dettagliatissima rilevazione
secentesca elenca anche le 23 derivazioni dirette verso i broli dei privati.
A distanza di alcuni decenni, il centro di Vallà non è mutato; ciò che si nota nella
mappa del perito Mantoan è, invece, l'importante penetrazione fondiaria della famiglia
Rizzetti che dall'originaria Salvarosa tende a crescere verso nord lungo l'asse visivo della Cà
Amata, cuore aziendale e edificio di villa ormai celebre per la sua dimensione architettonica
laboratoriale, autentica palestra d'applicazione delle teorie architettoniche di Giovanni
Rizzetti. Il complesso, disposto ortogonalmente alla Postumia, rivela intenzioni globali
(refugium e diporto, fuoco dominicale) piuttosto scoperte che il razionalismo delle linee, e
cioè gli inserimenti tuttavia successivi, l'abolizione degli archi e delle piattabande,
l'eliminazione del terzo piano e la distribuzione dei corpi di fabbrica esaltano. Va
naturalmente ricordato, anche per capirne la mancanza nel Prati, che la posizione dell'edificio
padronale, non raggiungibile dal capo d'acqua di Vallà, costrinse Rizzetti a chiedere nel 1736
una derivazione all'Ufficio alle Acque che venne concessa attraverso il cosiddetto fosso delle
gatte. Difficoltà poi legate al pendio del terreno sospesero l'operazione che venne rimandata
di alcuni anni, fino alla domanda successiva del 1748 con disegno allegato che mostra Cà
Amata ancora priva della barchessa ortogonale di sinistra, prima cioè della ridifinizione e del
completamento ottocentesco.
Vedelago. La seriola Contarini di Posmon di Montebelluna (tavole 35-38) e quella di Visnà-
Sant'Andrea (tavole 39-40), esistenti sin dalla seconda metà del XV secolo e riprese nella
Salomona, erano destinate a terminare la prima ad Albaredo e la seconda un po' a sud della
località Pozzobon. Il passaggio dell'acqua a Barcon è ormai indissolubile dalla vicenda di
palazzo Pola. Insediatisi presto nell'area, i Pola danno vita a una penetrazione fondiaria di
tipo latifondistico che si riflette significaticamente sulle modalità di insediamento. Esempio
pressoché unico di villa settecentesca chiusa nella pars dominica del suo quadrilatero, essa, ad
onta della ricostruzione settecentesca ad opera di Giorgio Massari, rivendica il suo carattere
padronale nella lateralità distante delle due barchesse al servizio del brolo interno e
nell'intersezione mancata dei due stradon detti di cà Pola (nord-sud, est-ovest). Alla fine, il
solo elemento meritevole di entrare nella cinta muraria dei Pola è naturalmente l'acqua con il
suo carico di utile necessità. Del resto, che i Pola avessero estremo bisogno di acqua è
confermato dall'istituzione del mercato nel 1797, un evento che aperse un'interminabile
Lucio De Bortoli © Acqua Patrizia
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querelle con Montebelluna. Per il resto, va pur detto che l'imponenza del celebre cubo dalle
quattre facciate timpanate di Massari raccontataci dal Crico e dallo schematico disegno del
Prati –unica fonte iconografica ad oggi esistente- appartiene ormai al mito della letteratura di
villa; miti, questi delle scomparse, sempre forieri di pericoli, compreso quello di diventare
notarili valori aggiunti in memoriam che probabilmente poco aggiungono alla conoscenza di un
repertorio come quello massariano, noto e soprattutto ben documentato in terra trevisana, a
cominciare dalla vicina parocchiale di Vedelago. Qui il canale affianca lo stradon del Pola
per giungere in paese dove il partidor in entrata forma il tridente verso i Contarini (Venier),
l'arteria del villaggio con l'invaso d'acqua per gli animali nella piazza di fronte alla chiesa e
soprattutto in direzione della proprietà Ravagnin e dell' edificio padronale a torre e
colombera al centro dell'assetto viario e parallelo all'alveo che poi piega in direzione del
brolo.
I perni d'acqua e di villa si ritrovano anche nella sottostante Albaredo, il cui assetto
fare definito sin dal Cinquecento (mappa Cecchetto p.86). Nel disegno del Prati (confermato
da una mappa di poco precedente) il villaggio pare essere prodotto dall'asse ortogonale delle
strade e dai rami del canale che vanno a raggiungere il sistema urbano degli edifici a corona,
nei quali spicca la centralità della parrocchiale (a nord della quale spicca il volume di Cà
Condulmer prima Gritti) e di Cà Grimani e Dolfin con la funzionalità dello stradon e della
piazzetta. La concentrazione di Albaredo è peraltro quasi certamente legata all'antica
presenza dei Morosini che nel XV secolo aveva portato allo scavo della seriola di Barcon. E a
dimostrazione della ciclicità alterna dei fasti e delle cadute non si può far a meno di rilevare
come l'edificio quattrocentesco, poi passato ai Marcello, sia già nel Settecento integrato nella
proprietà Grimani alla stregua, finanche, di una fatoria. Ma il peggio è sempre dietro l'angolo;
nella vicina Pozzobon, invece, la dominante villa Rizzardi, qualificante complesso aziendale
cinto di mura, è stata semplicemente stravolta dall'ignoranza ed è ormai pressoché
irriconoscibile (tavola 40).
Il sistema appena delineato si ripropone in termini ancor più eclatanti a Fossalunga
(tavole 42-44 con stacco a Pieve-San Gaetano di Montebelluna alla n.41), in cui gli assi e i
riferimenti a un disegno che va a dare forma al paese sono quelli che mettono in rete le vene
d'acqua e le derivazioni padronali con il modulo ortogonale del territorio di paternità romana.
Sul telaio in oggetto si dispongono le "invadenze" edilizie e sceniche degli Onigo, dei
Cariolato e, ancora, dei Ravagnin, famiglia dotata di enormi proprietà a Fossalunga comein
tutto l'alto trevigiano. L'articolazione delle penetrazioni d'acqua raggiunge i broli dei signori
Lucio De Bortoli © Acqua Patrizia
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con sistematica precisione e, nel caso di palazzo Ravagnin (imponente edificio dall'inconsuetà
verticalità), si avvolge attorno al sito dominicale stabilendo, anche in mappa, evidente
connessioni con le colture brolive praticate. Un braccio poi scende affiancando la strada
Cariolato che mette alla splendida e armoniosa palazzina cinquecentesca della famiglia,
connotata da una preziosissima decorazione a fresco della facciata. Va ricordato che il
controllo dell'approvvigionamento idrico da parte dei Cariolato e Ravagnin spinse poi, nel
tardo Settecento, Gugliemo d'Onigo a proporsi come finanziatore del potenzionamento della
presa di Pederobba pur di poter irrigare i suoi campi a Trevignano, Fossalunga, Pozzobon e
Pezzan. Il disegno del centro di Fossalunga dà infatti conto della situazione del nuovo
palazzo Onigo prospieciente la strada principale che lo separa dalle "dominicali del Nh
Ravagnin". Particolarmente significativo il cammino del canale che procede lungo il bordo
circolare del giardino di Cà Ravagnin per proseguire in direzione del capo d'acqua di
Sant'Andrea di Cavasagra ad adacquar i possedimenti dei Corner (ramo Piscopia) lì insediati
dalla fine del Quattrocento. Il Prati esalta da par suo l'imponenza presenza architettonica di
villa Corner rispetto all'ambiente circostante. L'edificio riprodotto è certamente il risultato di
un primo evidente ampliamento settecentesco che ha richiamato la consueta ridda di ipotesi
attribuzionistiche coinvolgendo Massari prima e Preti e Miazzi poi. Quel che risulta chiara è,
comunque, l'evidente insularità spaziale dell'edificio, simile anche in questo e non solo
alfabeticamente, a villa Spineda di Venegazzù.
Trevignano. Centrale, strategica e particolarmente declinata nei corsi, la seriola Vegro del Spin
si stacca poco sopra località Pontin di Guarda di Montebelluna per dirigersi al mulino di
Alvise Emo e al battiferro tenuto, sin dal Prati, dalla famiglia Cecchetto (tavola 15). Al
partidor sottostante di divide nei due rami che raggiungono Falzè e Trevignano (tavola 20).
E, come in in una propaggine ad albero, il primo si divide a sua volta in due, quello a sinistra
verso Musano e Porcellengo, quello a destra verso Marzeline, Padernello e il quartiere di
Paese; il secondo, a nord di Trevignano, stacca un ramo i cui filamenti raggiungono a sud
Istrana, Sala e Pezzan.
Trevignano, così come Barcon e Fanzolo, si riassume inequivocabilmente attorno a
villa Onigo. E, come per l'appunto per i Pola e per gli Emo, Prati non esita ad esaltare la
centralità urbana dell'edificio caricando il tratto nello Stradon e restituendo, anche in una
carta d'acqua, la vocazione scenografica dell'edificio, in particolare dopo la ridefinizione
stilistica di fine Seicento. Se la precoce presenza degli Onigo a Trevignano è ormai
sufficientemente documentata, l'edificio appare, all'atto della giustapposizione del pronao
tetrastilo sulla precedente struttura, il risultato di un palinsesto lungo decenni. Alla vigilia
dell'intervento del 1687 il perito Tessari inquadra minuziosamente l'articolazione della
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proprietà nel villaggio nel rispetto del suo mandato che prevede una rilevazione a fini fiscali.
Ed è significativo rilevare come anche questa rappresentazione finisca per dar conto -e in
termini assai più pesanti perché neutrale- non solo dei tratti "invadenti" della struttura ma
anche della complessità culturale del suo articolato dispositivo di edifici agrari, logge, giardini,
labirinti e peschiere con un'attenzione al dettaglio certamente connessa alla dimensione aulica
ed esornativa percorsa consapevolmente da Francesco Onigo. Insomma, un gioiello
squisitamente "urbano" quello di Villa Onigo e quindi meritevole di scavi profondi allo
scopo di restituirne una consistenza produttiva di gran lunga più importante per la
conoscenza dello sviluppo successivo del paese di quanto si sia finora mostrata la sterile
ricerca di una prova documentaria che assegni la villa ad un sedicente architetto di Treviso.
Da Trevignano il canale scende in direzione di Sala e Pezzan (tav.22), in cui spicca
una scomparsa villa Giustinian e raggiunge Istrana, capo d'acqua. Il percorso ad Istrana si
disperde senza toccare la strada Castellana e non raggiunge, come si evince anche dal Prati
(tav.23), la celebre villa Tamagnino Lattes, edificio, ad ogni buon conto, parte integrante del
"comparto Brentella". Il palazzo dominicale dei Tamagnino progettato dal giovane Giorgio
Massari, al di là della lettura morfologica del suo "barocco" e della lezione stilistica che
proviene dalla connessione dei suoi corpi di fabbrica , assume in questa sede particolare
rilevanza perché dimostra, una volta per tutte, l'importanza assunta dal canale. A distanza di
qualche anno dal termine dei lavori, il 6 dicembre 1723, Giorgio Massari scrive di suo pugno,
per conto dei Tamagnino e dei braccianti confinanti, la richiesta di "una portione d'acqua"
per le necessità alimentari degli abitanti del colmello delle Carlesse detto li Casoni. La richiesta
trovava motivazione nel fatto che, scrive Massari, "il detto colmello si principiò ad abitare
molto tempo doppo che la Brentella s'era introdotta in detta villa (..) che se all'hora che fu
introdotta vi fossero statte le dette abbitazioni certo che non sariano restatte prive dell'uso
dell'acqua, tanto più che sono situate nella parte superior di detta villa…". A riprova Massari
allega il suo delizioso disegno in cui si propone l'attacco del boccarolo, la corte delle case
rurali attorno alla villa e l'inopinata interruzione del canale verso ovest. La richiesta non ebbe
però esito favorevole a causa dell'opposizione di alcuni privati e persino della comunità di
villaggio preoccupati, presumibilmente, per un'ulteriore riduzione della già scarsa portata
d'acqua nella parte meridionale del sistema idrico.
Risalendo in comune di Trevignano, ben più articolato e variegato appare, invece,
l'invaso di villa nella vicina Falzè (tav.20). Qui il quadro è segnato dall'imponenza edilizia del
complesso Nani, poi Erizzo (parzialmente restituitaci dal tempo e conosciuta come villa
Manin), che spicca nella rilevazione fiscale tardo seicentesca del Pasconi e nella quale
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l'identità insediativa appare ormai delineata; e nella precisione con cui Prati disegna boccaroli
e canalette destinate ai broli di Marcantonio Erizzo. Villa di notevole centralità urbana, ma
decisamente sottovalutata dalla pubblicistica locale sviata dalla notorietà abitudinaria e
dall'alfabeto classico della Onigo di Trevignano, il complesso di Giovan Battista Nani appare
in tutta la sua articolazione in una perizia di Francesco Basso del 7 novembre 1691 che
consente di porre una coordinata temporale precisa sulla datazione del complesso. Nella
domanda il Nani richiedeva di staccare una seriola all'altezza del partidor che divide il corso
verso Musano da una parte e Padernello dall'altra. Gli venne concesso "l'estrazione di tre
oncie d'acqua ", quantità con la quale intendeva irrigare il brolo e l'horto di una proprietà
molto strutturata e caratterizzata da tre rilevanti annessi rurali, tra cui la lunga barchessa a sud
di cui si conservano due arcate e che accompagna i tre piani del blocco padronale.
L'assetto viario, piuttosto articolato, è invece strettamente fuso con la consistenza
della continuità visiva del muro di cinta di villa Onigo Farra, complesso speculare a quello dei
Balbi ma decisamente trasformato rispetto alla linea distributiva oroginaria –piuttosto
attendibile- che emerge dalla rilevazione catastale di fine Seicento, nella quale l'edificio di villa
appare collocato al centro della tenuta e quella che ora viene definito il corpo padronale –
peraltro di intonazione marcatamente ottocentesca- appare piuttosto un annesso di servizio.
Verso est, a sud della strada principale ma sempre lungo il corso del canale, si incontra
ancora la Cà Contarini del Prati (poi Pasqualetti Oniga) e, soprattutto, a sud dell'intersezione
con la Cal Trevisana, la residenza dei Bomben, punto di fuga di un ampio brolo verticale
parallelo all'arteria, e della quale sopravvive, stretto fra l'ordinario edilizio dei nostri paesi, lo
splendido e delicatissimo inserto del fronte posteriore.
Sempre in territorio di Trevignano Prati segue i due bracci del canale
nell'attraversamento di Musano (tav.24) ignorando deliberatamente la trama insediativa del
villaggio imperniata su un sistema viario invero diramato e articolato, lungo il quale si
accampano embrionali ma significativi segnali edilizi, coesi e strutturati. In questo insieme le
case dominicali dei Semitecolo (poi Coletti), Favaretto, Previero partecipano, in tutta
evidenza, al sistema urbano attraverso la specificità delle proprie, ancorché ordinarie e
modeste, caratterizzazioni architettoniche. Più che al Prati, è qui d'obbligo fare riferirmento
alla rilevazione fiscale di Gottardo Pamio (e poi anche di Piero Tessari) in cui il quadro
estremamente dettagliato del segno si esalta nel ruolo dinamico di villa Milani conosciuta dai
più come el palazzon. In realtà, ad onta dello stato di abbandono in cui versa attualmente e dei
recenti riusi che hanno reso più visibili le dimore di cui sopra, la residenza dei Milani, almeno
in mappa, occupa il territorio in termini assolutamente eclatanti, sia per le notevoli
dimensioni del corpo centrale e lo sviluppo delle barchesse, sia per la collocazione di cerniera
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tra la tessitura dei campi e l'abitato di cui appare garante con il suo straordinario viale
d'accesso.
Paese. L'ampio territorio a sud di Musano e falzè si segnala per l'alto numero di località e
villaggi raggiunti dal percorso sempre più verticale del canale. Da una derivazione di Musano,
l'acqua raggiunge (tav. 25) Marzeline (San Luca) dove si biforca piegando a sud ovest verso
Padernello (tav. 26) e sud est verso Paese e Bojago (tav. 27) e il partidor che dirige la
derivazione verso Villa di Villa capo d'acqua. Il corso principale di Musano raggiunge invece
(tav. 28) Porcellengo e Sovernigo, capo d'acqua. Dal partidor di Venegazzù a nord scende
invece l'acqua di Signoressa (tav. 29) che poi bagna Postioma (tav.30), Castagnole e Monigo
capo d'acqua (tav.31). Lungo tali percorsi gli edifici di villa sono quasi tutti concentrati nei
nuclei urbani delle località attraversate, a cominciare da Padernello e dall'improvvisa e
sinuosa ansa derivata che circonda il centro abitato alla ricerca delle dimore padronali.
Nonostante le molte scomparse, le ville a Padernello erano numerose e importanti, a
cominciare, naturalmente dalla celebre casa del segretario dei Dieci, quel Vendramin Bianchi
che, all'inizio del XVIII secolo chiese l'intervento di Giorgio Massari per nobilitare a
ampliare la precedente abitazione che compare nel splendido disegno del 1693 di Francesco
Basso. Se di villa Bianchi sopravvive una barchessa e della residenza dei Bomben a sud della
parrocchiale come dei Cà Zon si sono perse le tracce, è possibile rintracciare in casa
Mandruzzato ciò che rimane di villa Vicelli e in palazzo Lin-De Marchi villa Lini. Il pretesto
per il rilievo del Basso venne, per l'appunto, dalla richiesta d'acqua presentata a fine Seicento
dal veneziano Antonio Lini che incontrò la durissima opposizione del Vicelli e della
comunità di Padernello. Il disegno coglie da vicino il borgo e i punti nodali del sistema
idraulico, restituendoci nell'occasione e nuovamente la centralità del presidio territoriale
assunta dalla combinazione delle numerose dominicali che il Basso standardizza nella
sequenza corpo centrale e barchessa laterale.
Da Marzeline-San Luca, autentico snodo, il canale prosegue quasi rettilineo verso Paese da
una lto e dall'altro piega verso la frazione di Villa di Villa capo d'acqua ma, soprattutto, sito
dell'imponente villa Loredan, progettata anch'essa da Massari nel 1711 e restituitaci, almeno
nell'aspetto e assieme alla suggestiva villa dal Timpano Arcuato, dal dipinto di fine Settecento
di Francesco Guardi. A Paese, Prati (tav.27) registra la residenza dei Sugana –importante per
l'accesso esterno al piano nobile- e, soprattutto, l'assieparsi del borgo lungo il corso d'acqua
ma trascurando di segnalare il rilevante concerto di dimore che caratterizzano il territorio a
cominciare dalla quattrocentesca Casa Quaglia, una dei primi esempi di architettura di villa
del territorio trevigiano.
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A est, il corso proveniente da Musano entra in Porcellengo dirigendosi verso i numerosi broli
dominicali che caraterizzano il villaggio. Anche in questo caso disponiamo di una
rappresentazione "esplosa" del centro che dimostra la classica divisione del brolo e orto
dominicale dal cortivo colonico della proprietà di Pietro Busida. Il disegno del 1708 mostra la
richiesta di Busida di escavazione di una canaletta e con essa le modalità ravvicinate di
recinzione del fondo, a nord lungo la strada comune con i locali destinati all'attività agricola e
a sud con l'imponente stazza della fabrica dominicale ormai scomparsa. Del resto, anche
Prati, in questa parte di terrtorio, sembra dirigere il suo rilievo verso un'insolita cura del
dettaglio e delle ramificazioni ad uso dei broli padronali. La stessa attenzione che pone anche
per la frantumazione a Signoressa dei rivoli della derivazione connessa alla seriola ad est,
quella che da venegazzù si spinge sino alle porte di Treviso. L'acqua sembra determinare il
villaggio più ancora di quanto faccia la stessa trevisana o l'importante Palazzo dei Villabruna
sulla strada che porta a Volpago. E' lo stesso accade a Postioma, in cui le divagazioni
confinano e innervano il centro del paese. Il dato è visibilissimo in Prati (tav.30), ma
soprattutto nel bellissimo disegno del 1686 di Iseppo Cuman. Il centro del villaggio, disteso
nella Cal Trevisana ed esaltato dalla visione radente del perito, appare già determinato nel suo
assetto viario. La rappresentazione delle abitazioni disposte lungo l'arteria –dove si notano le
proprietà di messer Condura poi Bottico) e il corso del canale ha il suo centro focale nella
parrocchiale e nell'adiacente palazzetto degli Emo, privo delle incongrue ali laterali che
verrano costruite in seguito. Il singolare duo parroccchiale-villa (e gli annessi agricoli a nord)
sembra essere il baricentro dei vasti appezzamenti a sud posti a sud.
Ormai nei pressi di Treviso, la discreta presenza di dimore patrizie di Castagnole
appare, in cartografia (vedi NOTA), caratterizzata dalla relazione che stabilisce con l'assetto
viario; il tipo di insediamento appare già suburbano e, comunque, abbastanza lontano dalla
tipologia villa-azienda. Al contrario di quanto avviene a Monigo, in cui la presenza di alcuni
importanti complessi aziendali ormai scomparsi, cancellati o assorbiti, ripropone canalette e
ramificazioni. In particolare, si segnalano le proprietà dei Pola, Sangiorgio e, soprattutto,
Baroncelli il cui palazzo et altre fabriche coloniche brollo, giardino venne rappresentato in un
disegno del 1685 del solito Francesco Basso. Si trattava di un ragguardevole corpo di
fabbrica sviluppato su tre piani e al centro di un'articolazione fondiaria verosimilmente di
notevoli dimensioni. Appare indubbiamente sconcertante che di tale complesso -raggiunto
da un importante e clamorosa canaletta- e dei suoi secenteschi proprietari non sia rimasto
assolutamente nulla, a partire dalla memoria delle fonti.
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Ponzano. Terra dai forti richiami, il territorio di Ponzano è già nella prima metà del XVI
secolo meta di forte insediamento della vicina classe dirigente trevigiana, un modello, sia pur
in piccola scala, di penetrazione fondiaria urbana, secondo ormai collaudate tipologie. In
effetti, la decisa accelerazione della penetrazione veneziana nel trevigiano trova a Ponzano e
nella vicina Villorba grandi e significativi numeri. Ed è, peraltro, interessante registrare come
si sia trattato in buona parte di nobiltà di nuovo conio, quella dell'ondata dei nuovi ricchi che,
nel corso del XVII secolo, acquisteranno titoli e prestigio versando consistenti somme nelle
casse dello Stato. Gli esempi di tale mistura, ben presenti in Prati (tav.19), non mancano di
certo, a cominciare dal palazzo dei Minelli, facoltosi commercianti bergamaschi, che all'inizio
del Seicento acquistano il sito e gli edifici preesistenti dai monaci di S.Maria Maggiore per
metter mano alla nuove costruzioni del notevole edificio padronale, classico cubo ad
impianto tripartito, e delle ortogonali adiacenze, una delle quali fastosamente affrescata da
Pietro Liberi. Le dimensioni del complesso risaltano in piena evidenza anche nel disegno
d'estimo, in cui l'insieme del Palazzo domenical, barchesse, giardini e brolo emerge nella precisione
del tratto grafico del perito.
Quanto detto per i Minelli vale, fatte le debite proporzioni, per i Van Axel, fiamminghi da
tempo attivi nel commercio, ma anche nella gestione oculata di un reticolo di strategie
matrimoniali piuttosto redditizio. I Van Axel lasciano traccia di sé nella equilibrata palazzina
della seconda metà del Settecento in via della Chiesa. O può dirsi per Bernardo Stua con la
sua semplice casa domenical e giardino, dalla quale Alvise Caotorta, nella seconda metà del
Settecento, ricaverà l'attuale edificio un po' greve a causa delle evidenti aggiunte, ma di forte
impatto in un contesto ancora, miracolosamente, accettabile (nota per attribuzione Preti). O,
ancora, per Francesco Cariolato, la cui casa dominicale con vicino rustico sembra
corrispondere alla volumetria neoclassica della cosiddetta Casa Campbell, magnificamente
ristrutturata negli anni Settanta.
Nella vicina Paderno e alle sue ramificazioni d'acqua (tav. 34) ,si delineano le specificità della
proprietà del signor Agostino Rubbi, già agli inizio del '700, qualificata come palazzo con
giardino e broletto prativo al locco detto al Maseto, ancora priva quindi dell'originalissimo oratorio e
destinata a transitare nelle mani letteratissime e illuminate dell'istriano Gianrinaldo Carli e di
Pier Alessandro Paravia (originario di Zara e grande protagonista dei salotti letterari
trevigiani) che si dissanguò per acquistarla.
Villa Rubbi appartiene poi al diffuso infittirsi di dimore padronali che proprio a Paderno
sembra farsi sistema. Il dato appare evidente nelle mappe settecentesche, se solo si faccia
caso alla presenza, oltre che dei Rubbi, dei Ruzini (poi Cicogna) e degli edifici in località brolo
intestati a Stefano Meris e ora riconoscibili in villa Barbaro, caratterizzata da notevoli
armonie e marcata alfabetizzazione della fronte. Evidenze queste ben evidenti anche in Prati
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e nelle sue terminazioni d'acqua sempre piuttosto dettagliate, come nel caso della notevole
mole della casa domenicale della famiglia Giacomazzi e da quella, qualificata addirittura come
Palazzo domenical del notaio Giacomo Antonio Aproino, edifici presumibilmente scomparsi o
trasfigurati.
Il territorio di Merlengo è dominato dalla splendida villa Ferro, colta nella cartografia nella
sua imponente centralità. Insediamento cinquecentesco quello dei Ferro, uomini di legge
nobilitati negli anni sessanta del '600, caratterizzato dalla frammentazione dei fondi, saliti
sino a 152 nella rilevazione fiscale del 1714. Il sito di Lazzaro Ferro e fratelli viene descritto
opportunamente come palazzo con altre fabriche dominicali, cortivo et brolo cinto di muro. L'edificio
ora ci appare da uno squarcio visivo che interrompe siepe e muro e lascia pensare ad una
rivelazione improvvisa, certamente prodotta da una patina "romantica" valorizzata
dall'altissimo e originale timpano a volute e dalla lunga teoria delle statue lungo la fronte
principale, testimoni di pietra delle ascese e delle cadute di un'epoca irripetibile.
Di difficile identificazione nella mappe storiche di Merlengo è invece villa Corner, risultato di
progressivi ampliamenti e evidenti aggregazioni.
Il canale di Caerano e di Montebelluna. La spina dorsale del sistema idrico penetra da
Lavaggio e si distendo in direzione sud-est attraversando caeranese e montebellunese con
plastica evidenza fisica. Il protagonismo del segno trova piena corrispondenza nel decollo
produttivo ed insediativo dell'area. Al di là della straordinaria concentrazione energetica e del
fitto succedersi degli opifici, quel che va con decisione segnalato è la moltiplicazione delle
opportunità di lettura di un corso d'acqua che riesce a diventare, ancorché in un tratto
definito e solo in alcuni casi, persino sponda residenziale. A Caerano passaggi e diramazioni
sono funzionali al complesso in piazza degli Aproino (casa da statio, annessi e mulino), al
fondo omogeneo dei Rover, imperniato sulla splendida casa dominicale cinquecentesca a
corte il cui corpo centrale, decorato ed affrescato, è tuttora poco conosciuto, e al sistema
padronale massiccio e invasivo dei Girardi Benzi Zecchini, amplificato a dovere dalla greve
icasticità di un palazzo dalle cui forme chiuse, fortemente urbane e estranee alla struttura
aperta della tradizione veneta, la famiglia, dall'alto dei suoi mille campi, esercitava piena e
pressoché "feudale" podestà sul villaggio.
Proprio al di sotto del mulino dei Benzi, si staccava la seriola di Posmon (o brentella
Contarina) formalmente istituita dalla sentenza Salomona del 1503. Con l'arrivo dell'acqua,
prende inizio lo sviluppo insediativo ed economico di Posmon di Montebelluna, autentico
centro residenziale della classe dirigente trevigiana e veneziana. Si tratta di una
concentrazione patrizia di profilo nettamente urbano, con ben pochi paragoni nell'alto
trevigiano e che conoscerà continui sviluppi sino all'articolatissimo quadro di tardo
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Settecento immortalato dal Prati (tav.14). I benefici della Contarina cadono quindi sulle
proprietà cinquecentesche di Daniele Pace –palazzina quattrocentesca con il suo "cortivo
serado da muro" i cui tratti gentilizi sono ancora evidenti nella splendida trifora centraleinteressano
i frutteti recintati degli Agolante e Lancenigo, l'azienda di Marco da Seraval con i
suoi stabili e i 12 campi di piante da frutto, le residenze del cittadino Bastian Dal Ferro e del
suo fondo circondato da muraie accanto alle proprietà dei Da Le Laste, anch'esse articolate
(teze, bruoli, cortivi, case da muro) e segnate da "certe mure brusade", ricordo ancora vivo
degli scontri di Cambrai di inizio secolo; continuano con il mercante di lana Piero Beltrame e
del suo horto, con le case da coppi (e teze, cortivi, bruoli di olivari e frutteti) del notaio Damian
Damiani proprietario dell'intero borgo detto a Rialto, vale a dire l'attuale piazza Verdi,
toccano i fondi dei nobili Sugana, Azzoni, Bicignoli, Rinaldi, Onigo, sino alle peschiere dei
Contarini e dei Giustinian, le proprietà dei quali fungono inoltre da baricentro e riferimento
per l'assetto viario della villa. La piccola "casa de coppi" cinquecentesca di Marcantonio
Contarini, con il suo cortivo et horto, giesiuola et casa da coppi per gastaldo di fatto inaugura la
residenza a Posmon e custodisce ancora, seppur murato, il gioiello documentario delle due
vedute affrescate quattocentesche di Piazza San Marco e dei Signori. Poco più a nord, la casa,
stalle et edificii da trazer seda con cortivo et horto et bruolo contiguo di Antonio Giustinian che
diventerà, tra Sei e Settecento, il sito delle meraviglie di Giulio Giustinian documentato dalla
straordinaria mappa di inizio Settecento di Marco Boschetti. Nella presa ravvicinata del
perito l'articolazione della proprietà assume contorni e definizioni esemplari: il giro delle
peschiere, la distribuzione dei pieni e delle strutture di servizio, gli spazi dedicati alle serre e
agli allevamenti, la piantumazione, il frutteto e le specie arboree, le geometrie del giardino, il
fondo delle basadone, la riva soprastante, connotano una tipologia di villa diffusa, nella quale la
coesistenza del sollazzo e della rendita si rende persino eclatante; e nella quale appare ben
definito e preciso il raggiungimento maturo della concezione di un giardino la cui
presunzione razionale e architettonica sfida, in modo persino ostentato, il disegno della
natura e del mondo pseudo silvano che le fa da sfondo.
Gli accorpamenti e gli acquisti dei Giustinian assorbiranno le proprietà contigue dei
Donà e ridurranno sensibilmente il fondo dei Pola presenti a Posmon a partire almeno dal
1454. La piccola palazzina dei Pola (peraltro profondamente rimaneggiata nel Sei e
Ottocento), eternata dal celebre aneddoto del Bonifacio, deve la sua fama agli affreschi di
materia carolingia che decorano il piccolo barco e che avrebbero placato la furia delle
soldataglie francesi nel terribile 1509 di Cambrai; anche a prescindere da ciò, la rilevanza
figurativa dell'episodio consiste nel fatto che si tratta, allo stato, di una delle pochissime
testimonianze iconografica della massiccia diffusione nella Marca della materia cavalleresca e
della letteratura franco-veneta. La disseminazione residenziale di Posmon e di Visnà prodotta
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dalla ramificazione della Contarina si arricchirà nel tempo di casa Gavagnin, di palazzo
Lazzari, delle proprietà Galante e Fagarè (con il suo giardino) e delle trasformazioni della
grande proprietà Falier, il cui squadrato edificio dalla possente struttura quattrocentesca,
impreziosita da un elegante bifora centrale, dominava al centro di un vasta azienda ricca di
frutteti, di giardini e luoghi d'acqua attraversata dalla strada detta ora Castellana.
Diverso il quadro lungo l'artiera del canal grande, in cui compaiono i mulini e
soprattutto la dimensione del boccarolo Contarini capace di soddisfare le esigenze del grande
palazzo dominicale di Domenico Contarini -autentico volano dell'insediamento della futura
Contea- e delle schiere abitate dai suoi braccianti, evidente emanazione della residenza
nobiliare. Se le diramazioni verso sud hanno funzioni eminentemente irrigue, il corso del
canale dispiega però tutte gli inviti e le opportunità delle sue sponde lungo il territorio della
contigua Visnà. Se a Posmon la precoce presenza veneziana era rappresentata dai Contarini,
qui la famiglia tutelare è senz'altro quella documentata sin dagli anni settanta del
Quattrocento di Anzolo Cicogna. Il mulino e la bella casa da statio tipicamente veneziana dei
Cicogna – a fine Cinquecento indicata finanche come cha dipinta dal perito dei Beni Inculti
Feliciano Perona- sono tuttora parte integrante di un sito che ha subito sinora poche
trasformazioni e che valorizza come pochi l'andamento sinuoso del canale. La proprietà dei
Cicogna –grandi protagonisti delle vicende brentelliane e ben integrati nelle comunità ruraleancora
tra Cinque e Seicento conservava un certa consistente unitarietà. Durante il Seicento,
in particolare con l'arrivo dei Mora, i bruoli dei Cicogna andranno a formare la vasta proprietà
di Bortolamio Mora, centro organizzativo di un patrimonio fondiario di rilevanti dimensioni.
Come tutti coloro che giunsero alla nobilizzazione per denaro, anche Bortolamio volle
suggellare il cambiamento di status con la costruzione del suo "palazzo" e circondarlo di
prati, boschetti e giardini. Va ricordato che la penetrazione fondiaria a Montebelluna era stata
intrapresa da Bortolo Mora negli anni '60 del Seicento. A dimostrazione che il patrimonio dei
Cicogna era già stato intaccato, nel 1664 egli acquista dal ragioniere ducale Francesco Riva un
immobile e un brolo di cinque campi, l'embrione della futura residenza che, tra Sei e
Settecento, il nipote Bortolamio, all'indomani della suo passaggio nella schiera dei Nobil
Huomini nel 1694 ed erede dell'enorme fortuna dello zio, trasformerà in palazzo rilevando le
pezze mancanti e aggregando gli spazi. La villa dei Mora, riconducibile nella concezione
generale ad Andrea Tirali, possente, grandiosa e monumentale, vivrà ulteriori interventi negli
anni '20 del Settecento ad opera di Giorgio Massari, allorchè si registra la documentata
presenza di un cantiere. Il suo legame con il canale è reso evidente dalle numerose fonti e dal
definitivo controllo del mulino Cicogna, episodio finale dell'alternanza delle umani sorti,
dell'eterno fluire di ascesa e decadenza.
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Superato il loco Cicogna l'acqua alimenta broli e palazzine piegando progressivamente
verso sud. Lungo il percorso gli insediamenti s'infittisce all'altezza delle ortogonali viarie in
cui spiccano le proprietà immobiliari delle famiglie Lombardo -tra cui il delizioso palazzetto
(poi Dall'Orso) in località al ponte e l'importante struttura a sud conosciuta come villa
Carretta- e Gandin, facoltosa stirpe di ingegneri e notai, titolari di una vasta possessione con
"brolo grando cinto di muro e casa dominical…chiesa caneva casa da fattor et altri comodi",
grandi barchesse, 60 campi del maso circostante e mulino, esempio pressoché unico nel
territorio di azienda sistemica, integrata e unitaria. All'altezza di Pieve il quadro degli
insediamenti si dirada notevolmente e lascia il posto all'appoderamento sparso e a agli opifici
(il tezzon de salnitro e il battiferro a Guarda). La stessa Pieve e il montebellunese ad est del
centro troveranno alimento dalla seriola di Montebelluna, ovvero la Ru. Di dimensioni
analoghe a quella del Montello, la Ru si stacca oltrepassata località Croce dei Balestrieri a
Crocetta, attraversa Biadene e penetra a Pieve e Guarda da nord attraverso San Vigilio. Nel
suo corso la derivazione interessava il territorio di Pederiva e, nella fattispecie, le enormi
proprietà dei Bressa. Stanziati sin dal secondo Quattrocento nel territorio al centro del quale
avevano progressivamente edificato, attraverso varie fasi costruttive, il monumentale palazzo
lungo la Cal Trevisana, i Bressa, a proposito d'acqua, godevano di ampii privilegi. Val la pena
di ricordare, sia pur velocemente, come in occasione della controversia nata nel primo
Seicento a proposito dell'esistenza "immemore" di un boccarolo privato tratto dal "ghebbo
maestro" del canale e considerato illegittimo dall'Ufficio delle Acque, Girolamo e Giovan
Battista Bressa sostennero la liceità della derivazione basandosi sulla sua esistenza centenaria
e sul fatto che essa andava sì a beneficio dei molti cortivi (cinque) et fabriche per nostro uso, ma
anche degli abitanti della villa e dei loro animali. Del resto, lo scenario di palazzo Bressa
restituitaci dalla stampa ottocentesca del Pividor (e tuttora riscontrabile) corrisponde bene
alla tipologia multifunzionale della villa veneta nella quali residenza, sfarzo ed agio si
coniugano con la funzionalità delle strutture aziendali e delle coltivazioni arboree.
L'articolazione del complesso è tale che in esso coesistono il corpo centrale tardo
quattrocentesco in disposizione est ovest e quello molto più tardo (tra Sette e Ottocento) in
direzione nord-sud.
Pur passando per Biadene (molto più interessato dal passaggio della seriola del
Bosco), la Ru è stata indubbiamente per secoli soprattutto il canale del centro e contribuirà
notevolmente al lento ma inesorabile processo di urbanizzazione di Pieve. Le numerosissime
diramazioni e canalette diventeranno il sistema sanguigno di piccoli agglomerati e case
patrizie, tra le quali val la pena di ricordare quelle dei Salvini e Quer lungo l'attuale via S.
Maria in Colle, ma soprattutto di Lelio Rinaldi, esistente sin dal 1542, un vasto fondo
composto dalla "casa da statio cum casa da gastaldo et cum uno bruolo contiguo circundato
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da muro piantado et vitigado cum frutari di campi sei.." adiacente alla pezza a mezzogiorno
in parte a prato e separata dalla parta domicale dal passaggio della Brentella. Il bruolo
residenziale verrà acquistato nel corso del Seicento dalla famiglia di notai locali Tronconi e
quello a sud, in parte, dal fittavolo Bernardin Dalla Riva. La dimora dei Tronconi raggiunta
da un'ansa dedicata dalla Ru, assume in Prati (tav.14) quasi rilievo rivierasco, al centro di un
importante incrocio viario e appena sopra l'alveo grande del canale e al partidor per San
Gaetano. Casa padronale e giardino transiteranno, nel corso dell'Ottocento nelle mani del
dottor Gaetano Acqua che la venderà, di lì a poco, al giovane Pietro Bertolini, alla ricerca,
come nei secoli addietro, di luoghi miti e ubertosi per i proori cari. A Guarda il precoce
insediamento delle residenza estiva del vescovado cittadino e l'arrivo di Andrea Barbarigo nel
1443 connotarono il territorio dei rilievi a nord della Cal de Piera determinando una cesura
evidente con i campi sparsi del piano. La casa di Andrea diventerà, nel corso del Seicento, la
corte articolata restituita dalle mappe catastali e sopravissuta sino a noi nella barchessa e negli
annessi del gastaldo (ora Museo Civico), dopo l'abbattimento del massiccio corpo padronale
e i decisi interventi dell'avvocato Pietro Biagi. A nord del giardino dei Barbarigo, il palazzo
(scomparso) di Priamo Ravagnin con la sua peschiera minuziosamente commissionata dal
proprietario; ad est, separati dalla strada, il grande fondo (10 ettari) dei Mazzolenis, mercanti
e poi notai, insediatosi nella Pieve di Montebelluna sin dal Cinquecento e proprietari di un
edificio di villa rilevante e adiacente ad uno degli snodi viari più importanti del paese.
L'edificio, da tempo soffocato da costruzioni a filo strada (modulo che ha disgraziatamente
segnato l'intera città), è il risultato di un processo lento di sedimentazioni e di aggregazioni
che raggiungono la configurazione finale all'altezza del sesto, settimo decennio del Seicento
allorché si segnala la presenza continuata e sistematica di un cantiere.
La seriola del Montello. Dopo aver affiancato il Piave nel suo tratto a nord, superati Onigo
e Rovigo, la grande concentrazione di mulini che caratterizzano questo tratto (tav. 3) e alcune
importanti esempi di residenza borghese funzionale ai progetti di un committente pratico e
attento come nel caso del mercante veneziano Nadal Groppo, artefice paziente della
trasformazione della struttura contadina originaria in casa dominicale in cui risiedere e,
soprattutto, fare possibilmente affari (villa Calvi Caregiani), il corso rettilineo del canale
attraversa Crocetta e lancia le sue diramazioni verso i borghi di Rivasecca (tav.4), di Busco,
Prantighe e Ciano (tav.5) per giungere a la Crosera dove si trova partidor generale (e il contiguo
ponte di pietra) del Brentella che ne divide in due il corso; in altri termini, lo snodo decisivo
del sistema. Il cosiddetto ramo secondario raggiunge il bosco dopo alcune centinaia di metri
e diventa il canale del bosco o seriola del Montello proseguendo sino a Giavera per poi
piegare bruscamente in direzione Povegliano. Lungo il suo corso l'acqua attraversa numerose
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ville: Busco di Ciano, Biadene, Caonada, Venegazzù, Martignago, Volpago, Lavajo, Selva e
Giavera. L'unitarietà e l'omogeneità del passaggio assicurate dal filo conduttore dei siti ai
piedi del bosco suggerisce una visione in grado di garantire la tenuta del quadro territoriale.
Prologo importante agli insediamenti montelliani e capitolo di cristallina pulizia stilistica, villa
Sandi appare particolarmente legata agli usi del canale, come dimostrano le numerose cavalcate
a proposito delle irregolarità del proprietario nell'apertura dei suoi boccaroli (con relative
richieste di accettazione dello status quo) e il corso dell'acqua che affianca la corte d'accesso
della villa. Villa Sandi (come quella degli Onigo a Trevignano) è un esempio eclatante di
come la ricerca archivistica possa porre argine al soggettivismo stilistico delle attribuzioni
d'autore acquisite acriticamente dalla tradizione e mai verificate. Poiché nell'enorme
pubblicistica commerciale e illustrata sulle ville venete la villa continua, nonostante la
documentazione prodotta, ad essere attribuita al sedicente Andrea Pagnossin –raro esempio
di immaginaria figura che l'abitudine a fare i libri sui libri invera- val ancora la pena di
precisare che l'edificio venne costruito a più riprese nel decennio 1675-1685 da un cantiere
molto numeroso e articolato in maestri d'opera locali e non. Al di là degli errori costruttivi di
cedrera, chiesetta e tetto del palazzo che portarono all'allontamento del capo cantiere, i due
disegni custoditi nell'archivio del consorzio e un fondamentale documento del 1684,
dimostrano in tutta evidenza le due fasi costruttive. La prima fase è dominata dalla figura
piuttosto controversa di un capomastro quanto meno approssimativo; la seconda dalla
paternità del cantiere attribuita chiaramente dalle carte ad Andrea Cominelli, architetto e
proto veneziano di un certo spessore. Se il primo disegno datato 1680 registra la costruzione
avvenuta del complesso prima delle disavventure costruttive dell'anno dopo e segnala, pur
nell'appiattimento, un corpo centrale a loggiato con tre aperture ad arco nel piano nobile, il
secondo di tre anni dopo registra la presenza della rampa e del pronao tetrastilo a colonne
ioniche timpanato, segno inequivocabile di una avvenuta giustapposizione alla struttura e
dell'intervento di un progettista padrone della prassi alfabetica e dei moduli classici qual era,
indubbiamente, il Cominelli. L'opportunità di disporre delle analitiche vicende costruttive di
villa Sandi dimostra, una volta di più, quanto sia necessario diffidare delle vulgate e, allo
stesso tempo, si renda obbligatorio ricorrere agli strumenti di conoscenza documentari che
mettono in relazione l'edificio di villa con il sito e le sue dinamiche ambientali ed
economiche.
In direzione Biadene di Montebelluna il canale comincia ad ospitare i numerosi
opifici che saranno al centro di infiniti contenziosi con i villaggi e i privati a valle per la
perdita del flusso destinato agli usi alimentari e agricoli. Il passaggio a Biadene poi alimenta
gli usi di villa Caregiani (Pellizzari) -originale edificio a croce con viale d'accesso ad ovest e
che diventerà anche sede di Pretura-, della modesta casa dei Bressa poi ampliata tra Sette e
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Ottocento e, soprattutto, della residenza che Anzolo Correr costruisce negli anni sessanta del
'600. Per poter datare con una certa precisazione l'esistenza della villa disponiamo, peraltro,
di un utile termine ante quem rappresentato dall'utilizzo a partire dal giugno 1670 da parte
del Correr di un boccarolo largo due oncie; lo stesso cinque anni dopo viene impiegato per le
fontane del giardino; nel 1702 i boccaroli sono diventati già due e alla fine di giugno 1718 tre
più un quarto che gli uomini di Biadene usano "per dar acqua a bagnar calcina per la fabbrica
della chiesa" che di lì a poco ospiterà l'affresco del giovane Tiepolo; nel 1735, infine, le
"gorne" erano ormai ben quattro più una laterale di dubbia destinazione. Si tratta, come
appare evidente, di un progressivo e significativo aumento del fabbisogno d'acqua
certamente connesso con l'ampliarsi delle destinazioni d'uso e, nella fattispecie, delle esigenze
rappresentative del grande complesso ai piedi del bosco nel frattempo passato dalla famiglia
del procuratore generale di San Marco Anzolo Correr a quello di un doge come Alvise Pisani.
L'ampio viale d'accesso dalla Cal Trevisana (ben rappresentato nei disegni fiscali e finanche
enfatizzato dal Prati, tav.7) rappresenta in questo e in altri casi consimili il segno diretto sul
territorio dell'elevata rappresentatività della dimora. La scenograficità della quinta è però
speculare all'invasività dimensionale dell'articolazione edilizia, costruita e successivamente
congegnata, attraverso i numerosi interventi di ampliamento e trasformazione che, in seguito
ai numerosi passaggi di proprietà, l'investiranno dal tardo Settecento sino a metà Novecento,
quale struttura multifunzionale, perno territoriale attorno a cui si diffonderanno i borghi a
sud e a ovest, marginalizzando sempre più la significativa presenza di importanti siti
dominicali come quello degli Spineda e dei Bassasini.
Come detto, il sistema ambientale e antropizzato della seriola montelliana presenta
caratteri omogenei. Essi provengono, principalmente, dalla circostanza che la proprietà nella
zona delle ville montelliane si mantiene saldamente in mani trevigiane. L'amenità e la fertlità
dei luoghi e la vicinanza del bosco e delle sue occasioni, inducono alla difesa delle posizioni
e, come ampiamento dimostrato dalle fonti, al recupero (furto) di acqua sotto qualsiasi
forma. E' sicuramente questa la ragione per la quale il maggior numero di cavalcate riguarda la
fascia in oggetto. Prendere in considerazione queste ispezioni –spesso rimaste senza concrete
conseguenze- può costiture un utile quadro di conoscenza dei privilegi e delle proprietà di
una nobiltà di Provincia come quella trevigiana.
A partire da Caonada sino a Giavera nell'arco di tempo che va dalla fine del
Cinquecento alla fine del Seicento disponiamo di tre rassegne ispettive di cui val la pena di
dar conto. La relazione Perona del 1595 registra la presenza dei Castello (Caonada), Selmo
(cisterna), Martignago (cisterna), Rinaldi (Venegazzù), Rinaldi (cisterna), Martignago
(cisterna) e Alba (cisterna) a Martignago, dei Bressa per "cortivo et cisterna" a Volpago, degli
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Avogadro (cisterna), Lancenigo e Laura Bressa (cisterna e palazzo) a Lavaggio, dei Lancenigo
a Selva, dei Tiretta e Sfoglio (cisterna) a Giavera. Nel 1640 dei Vandramin, Pisani e Castello a
Caonada, degli Anselmi, Benaglia, Martignago (cisterna), Ravagnin, Spineda (Dominicale),
Rinaldi, Palma a Venegazzù, dei Bicignoli, Dandolo, Allani, Martignago (cisterna) a
Martignago, Bressa, Ragazzi a Volpago, di Roccas e Avogaro a Lavaggio, Castelvico,
Castelcucco, Rinaldi, Bressa, Lancenigo, Medolo, Bassanini, Tiretta a Selva, dei Muttoni,
Grion (cortivi), Sfoglio a Giavera. Nel 1689 si aggiungono o subentrano i Rosina a Caonada,
i Mozzetti, Meneghetti, Tron e Martignago a Venegazzù, Priamo Spineda e Spineda da
S.Leonardo a Martignago, i Bressa a Volpago, i Collalto a Lavaggio, gli Allani, i Marcello, gli
Aproino a Selva. Tutti costoro erano titolari di ingressi d'acqua nei loro fondi coltivati allo
scopo di sostenere più efficamente la gestione dei broli (frutteti) e dei giardini. Lo sviluppo
dell'insediamento patrizio lungo le sponde del canale raggiunse ai piedi del bosco
concentrazioni molto evidenti anche nei disegni del Prati (tav. 7,8,9), più attento, come detto,
ai boccaroli e alle canalette di quanto fosse per la registrazione edilizia. Malgrado
l'ommissione della titolarità e la nota approssimazione nel disegno degli edifici, è facile
riconoscere, a scorrere da Caonada, le secentesche case dominicali a Caonada dei Rosina (poi
Cornuda), tra il cui albero alberga da tempo il notaio Gian Nicolò, i cui rogiti contengono
l'evoluzione della penetrazione fondiaria dei Correr e dei Pisani, e degli Spineda. Di questi
ultimi, presenti lungo tutta la fascia submontelliana, va tuttavia segnalato l'antico
insediamento in Venegazzù, territorio elettivo per numerose famiglie cittadine. Il carattere da
statio e comunque particellare e pervasivo dell'urbanizzazione del territorio promossa
dall'edificazione patrizia di ridotte dimensioni è ben evidente nel caso del notaio trevigiano
Giuseppe Varisco che, nel 1707, "dovendo aggionger alla sua casa dominical…una certa
fabrica da novo in forma di barchessa verso levante appoggiata alla medema casa
dominicale" commissiona l'opera ai cugini "murari di detta" Zuanne e Antonio Domengoni
per 40 ducati.
Ad ogni modo, la ricognizione (nonché gli estimi) dei funzionari delle acque segnala
fin dalla prima metà del Seicento il "luoco e casa dominicale delli magnifici Signori Spineda,
eredi del quondam Magnifico Signor Augusto Rinaldi..", complesso di cui sopravvive il
rustico e peraltro ben visibile nella mappa del 1681 -più tardi definito anche cassina Spinedache
precede, quindi, la straordinaria epifania di pietra firmata Preti-Miazzi a metà Settecento,
ben nota alla letteratura e alla pubblicistica illustrata ed esempio sempre più raro di oggetto
immerso in un coerente ed omogeneo contesto paesistico (in Prati, tav.15, compare
isolatissima e pertinente, se mai, al ramo principale del Brentella). Lo stesso può dirsi per
l'elegantissima cà Duodo in località Martignago(dal nome della famiglia che la possiede nel
Settecento) lungo lo stradone, servita da proprio boccarolo e ben definita dal Prati (tav.7) oltre
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che dalla cartografia di inizio Settecento in cui compare al centro dei suoi annessi. La villa,
con la sua monofora centrale attorna alla quale si dispongono a corte finestre ed architravi,
era immersa, come ben appare nelle mappe fiscali, in un fondo di ampie dimensioni. Ciò
dimostra, in modo quasi eclatante, la funzione scenica di un edificio dominante sulle
coltivazioni ed emergente dallo sfondo boschivo. Motivo che ricorre anche per casa
Sernagiotto a Selva, edificio terminale delle proprietà di Bernardo Navagero nel 1542 e, in
particolare, per il grande complesso Bressa a Lavajo. Proprietaria di grandi estensioni di
territorio tra Volpago e Selva sin dalla fine del Quattrocento, la famiglia Bressa impone la
propria presenza attraverso l'importante complesso a Volpago di Agostino dotato di cisterna
e ben visibile nella mappa del 1680 e ormai irrimediabilmente trasformato e stravolto. Poco
più in là, lungo lo stradone del bosco, sopravvive invece l'imponente barchessa che diventerà
poi dei Marcello e dei Loredan. L'edificio, un rettangolo a copertura a padiglione, spicca
tuttora ai piedi del bosco per l'eccezionale unitarietà formale delle sue nove arcate e della sua
splendida cornice marcapiano. La posizione dell'edificio, adiacente al palazzo ormai
scomparso, s'intreccia col corso del canale e della strada producendo uno scarto direzionale
che va fatto risalire alla messa "in signoria, come avene a tutta quella riviera del Montello". La
citazione appartiene ad una supplica che Camillo Bressa presentò nel 1626 per poter
ripristinare gli antichi usi dell'acqua del canale da parte della famiglia. Tali usi risalevano
immediatamente dopo all'escavazione dell'alveo del 1449 e i Bressa li avevano sempre
considerati parte integranti delle proprie proprietà. Nella supplica, Camillo spiega bene come
in seguito al decreto del Consiglio dei dieci del 1592 che indemaniava e perimetrava
definitivamente il Montello, i Bressa avessero perduto una riva "di olivari" e "anco molto
terreno del bruolo…per la continuazione del detto stradon..". Probabilmente, in cambio
dell'esproprio la famiglia aveva ottenuto la deviazione del sedime stradale e, in seguito, la
ratifica dei boccaroli abusivi perché consuetudinari. Tre anni dopo, nel 1595, il perito
Feliciano Perona, nel corso della sua lunga ed estenuante ispezione brentelliana, rileverà che
Laura Bressa gode di un boccarolo di ben sei oncie "di sopra del suo palazzo nuovo" e di un
altro di quattro oncie e mezza "apresso il suo palazzo per il qual estraze dell'acqua per uso
della sua cisterna vecchia esistente nel suo cortivo vechio dove lei habita". L'informazione
data quindi la nuova villa (anch'essa parzialmente scomparsa) e fornisce un ennesimo
esempio di palinsesto tipologico, all'interno del quale alla grande barchessa è riservato il
finale.
Accanto agli esempi precipui del canale, vanno richiamate, per completezza, le
presenze nel territorio di Volpago e Giavera di numerose dimore dominicali come la
centralissima e rimaneggiata villa Saccardo, il singolare corpo di fabbrica appartenuto ai Priuli
e dalle fattezze originarie ormai illeggibili e il modello quattrocentesco e pionieristico di
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residenza di campagna dai tratti significativamente urbani (portico e loggiato) della
celeberimma Casa Dal Zotto. Terra di grandi preludi, il bacino montelliano conserva, infine,
la gemma purissima di villa Tiretta-Agostini a Cusignana, edificio considerato, sulla base di
letture esclusivamente stilistiche, finanche precursore delle ville del Palladio. La fama
"letteraria" di villa Tiretta è pertanto legata al fatto che essa presenta caratteri strutturali
(connessione evidente tra il modulo tripartito centrale e gli annessi porticati in linea con il
corpo domenicale e ad esso legati, larga scalinata frontale e basamento, unico piano nobile,
sottotetto) largamente simili alle soluzioni palladiane. E' invece per noi più significativo
l'orientamento sud-ovest della facciata principale, in linea cioè con l'andamento dei fossi
brentelliani. I Tiretta, di fatto, sono tra i maggiori proprietari della zona di Giavera e
Cusignana e la loro presenza è documentata sin dal 1518 quando denunciano alcuni
appezzamenti, tra cui un prato di un campo e mezza in località Colombera. Nel 1542 Battista
Tiretta denuncia "un cortivo cum case et tesa da coppi in loco detto alla Colombera" che dà
in affitto e "un cortivo cum casa da coppi et teze da paia cum una riva prativa piantada et
vidigata de campi cinque et mezo…in loco ditto sora albole" che tiene "per proprio uso".
Nel 1640, in una cavalcata brentelliana, si delibera positivamente per i Tiretta "dovendo
restar nella sua forma il boccaruolo concesso nel 1562 al luoco della Colombera per il
Magnifico Signor Tiretta fatto in villa di Selva alto e largo oncie Tre e mezzo". Ora, appare
evidente, anche tenendo conto della laconicità informativa degli estimi cinquecenteschi, che
l'edificio non solo non esiste nel '18 ma che nel '42 in entrambe le possibili località le case da
coppi e gli edifici rurali sono abitati da contadini e non possiedono la qualifica da statio che,
nelle polizze del periodo, segnala l'edificio rilevante o residenziale. E' quindi molto probabile
che la ridefinizione quantitativa e residenziale del complesso sia connessa, come avviene in
questi casi, con l'attivazione del boccarolo da Selva agli inizi degli anni sessanta. Ciò
sposterebbe in avanti la datazione e, francamente, riporterebbe l'esistenza di villa Tiretta in
un alveo più coerente con la sua, inspiegabile ma oggettiva, mancanza di fonti e di letture da
parte dei cronisti. Al di là di ogni altra considerazione, la meraviglia architettonica di
Cusignana vive ancora avvolta e tutelata dal suo naturale contesto e ciò ne fa, tuttora,
un'autentica rivelazione visiva.
Il legame tra ville e acqua patrizia è, insomma, stretto ed evidente. Del resto, quanto
la villa di campagna fosse organicamente parte dell'ambiente circostante; e quanto l'acqua sia
stata elemento portante dell'intero sistema, è questione ormai pleonastica. Studiare un
insediamento di villa significa mettere insieme molti elementi e l'architettura è solo uno di
questi. E ben lo sapevano i signori che per tutto il Cinque e Seicento dedicarono tempo e
fatica a stendere robusti vademecum di vita e amministrazione rustica; e che non si
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stancavano di elencare e descrivere natura, opportunità, compiti e funzioni di un complesso
produttivo e stanziale ormai fondamentale per la vita e le attività di un cittadino con il pallino
delle rendite. Alla luce di tante prescrizioni, pragmatiche e ideologiche assieme, quel che
emerge in ogni panoramica sul fenomeno di villa e come dato pressoché definitivo è la
perdita del paesaggio, del contesto e dei suoi segni. Se l’attenzione storico-architettonica ha
consentito importanti salvataggi di fabbrica, quel che si è perso è la componente decisiva
dell’insediamento, e cioè il territorio nella sua naturalità ma anche nella sua configurazione
prodotta, nella quale coni visuali e propagazioni urbane apparivano il risultato di un percorso
coerente, equilibrato e armonico. La cartina di tornasole costituita dalla eccezione (Cà amata,
Spieneda, Emo, Bressa-Guillon, Corner, Tiretta) si presenta ormai tutta stretta in una
dimensione assediata e sempre più drammaticamente insulare.
Lucio De Bortoli © 2004
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